[… e non si può naturalmente che essere d’accordo]
Si tratta dell’importante sentenza [la prima su questo tema specifico] del Tar Marche n. 106 del 9.2.2021, quindi pubblicata soltanto da qualche ora, che rendiamo cliccabile perché meritevole di essere consultata con adeguata attenzione anche per la straordinaria paradigmaticità ed esemplarità della fattispecie ivi decisa.
Prima però di richiamarne brevissimamente qualche passo saliente, vogliamo riportare quanto osservato nella Sediva News del 02.11.2017 [“Concorrenza – Le incompatibilità (vecchie e nuove) oggi vigenti e quelle (forse) tacitamente abrogate”] con riguardo al nuovo secondo periodo del comma 2 dell’art. 7 della l. 362/91 – secondo cui “La partecipazione alle società di cui al comma 1 è incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l’esercizio della professione medica” – e al successivo nuovo terzo periodo: “Alle società di cui al comma 1 si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni di cui all’articolo 8”.
In realtà la prima di queste due disposizioni – entrambe, lo ricordiamo, introdotte dal comma 157 della l. 124/17 – riscrive con integrazioni il precedente disposto sub a) del comma 1 dell’art. 8 della l. 362/91, ma sottraendo la condizione di incompatibilità che vi è prevista al “filtro” della compatibilità espressamente invece contemplato, come si rileva dal terzo periodo, per le condizioni sub b) e c) dello stesso comma 1.
In sintesi, mentre la sopravvivenza alla l. 124/17 della condizione sub b) “con la posizione di titolare, gestore provvisorio ecc.” e di quella sub c) “con qualsiasi rapporto di lavoro ecc.” va scrutinata con il “filtro” della compatibilità con la prima legge sulla concorrenza [tant’è che la Corte Costituzionale ha interpretato nel modo che sappiamo la condizione sub c), ricevendone un giudizio di condivisione da parte del CdS], la causa di incompatibilità “con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione ecc.” si applica invece per tutti i soci, persone fisiche [farmacisti e non farmacisti] e società [di persone e di capitali], di tutte le società titolari di farmacia, quale che sia il ruolo che vi assuma il soggetto che versi in una di tali condizioni e qualunque sia la misura della sua partecipazione.
Fatta questa premessa, ecco di seguito le nostre notazioni di allora sulla questione, perché talvolta un’“autocitazione” può aiutare.
“Sono tre e diverse tra loro le condizioni di incompatibilità previste nel comma 2 dell’art. 7: ma tutte sono riconducibili all’intendimento del legislatore di evitare la partecipazione all’esercizio e/o gestione di una o più farmacie di figure imprenditoriali o professionali portatrici di interessi privati potenzialmente in grado di confliggere o incidere negativamente o porre comunque in pericolo l’interesse di rilievo pubblico alla “migliore” dispensazione del medicinale al cittadino.
Quanto alla produzione e all’informazione scientifica del farmaco, nella norma le due ipotesi vengono riunite perché i criteri di operatività sono gli stessi e in prima battuta sembra anche facile coglierli: la partecipazione è cioè impedita sia alla Bayer come tale che alle persone dei suoi manager, impiegati o collaboratori anche autonomi, e così pure a un’impresa individuale o collettiva di informazione scientifica del farmaco come a tutte le persone fisiche degli informatori.
Quindi in queste due prime figure l’incompatibilità riguarda indubbiamente sia il socio‑persona fisica che il socio‑impresa o socio‑società.
Nonostante però la diversità di formulazione e il più stringente dato letterale, anche l’incompatibilità con l’“esercizio della professione medica” non parrebbe circoscrivibile ai soli medici iscritti all’albo, dunque al socio‑persona fisica, e invece dovrebbe parimenti applicarsi [la ratio è la stessa e tutto sommato neppure l’apparente rigore della lettera forse lo impedirebbe] anche al socio‑società, ma quando la società “partecipante” – ci sembra questo un plausibile criterio discretivo – sia legittimata statutariamente all’esercizio di attività sanitarie inclusive di quella medica.
Non può perciò partecipare a una società titolare di farmacia la classica casa di cura – che generalmente eroga a proprio nome alcune prestazioni mediche, come quelle radiologiche, di medicina nucleare, ecc. – mentre può probabilmente parteciparvi una società al cui oggetto sia statutariamente estranea qualsiasi attività riservata alla professione medica.
Quest’ultimo può essere il caso, poniamo, della Sediva (!) o di una società che ad esempio abbia per oggetto statutario l’esercizio e lo svolgimento soltanto di prestazioni infermieristiche o di fisioterapia o di podologia ecc., oltre, inevitabilmente, al compimento (quel che d’altronde leggiamo più o meno in tutti gli statuti sociali) di operazioni finanziarie e forme di investimento comunque connesse con il conseguimento di quell’oggetto sociale, come infatti sarebbe per queste società la partecipazione a società titolari di farmacie.
Nella loro compagine sociale potrebbero allora forse entrare – perché si tratterebbe in realtà di meri soci investitori/capitalisti – anche medici iscritti all’albo professionale, esattamente come commercialisti, avvocati, impiegati, ecc.: a decidere a favore della legittimità della partecipazione anche di tali società a società di persone o di capitali titolari di farmacie potrebbe insomma bastare l’assenza, tra le attività consentite dallo statuto sociale, di qualunque prestazione medica.
Certo, non possiamo non considerare che per il fondamentale art. 1344 cod. civ. è radicalmente nullo per illiceità della causa un contratto “quando costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”, e tutte quelle che sanciscono l’incompatibilità con la partecipazione a una società titolare di farmacia sono con ogni evidenza norme imperative e quindi sono tali le disposizioni sopra riportate di cui al comma 2 dell’art. 7 e al comma 1 dell’art. 8 della l. 362/91.
Questo vuol dire che il negozio (atto di costituzione o di cessione di quote) con cui un medico acquista lo status di socio di una società – che statutariamente abbia per oggetto l’acquisizione a nome proprio di imprese commerciali e/o di quote di società commerciali [quindi incluse, o non escluse, le farmacie] – potrebbe essere nullo proprio perché ritenuto un “mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”, quella evidentemente che vieta la partecipazione di un medico iscritto all’albo.
S’intende però che la nullità si concretizzerebbe solo se e quando la società da lui partecipata si rendesse a sua volta titolare di una farmacia o partecipasse a una società già titolare di farmacie.
Ma nei casi in cui invece la partecipazione a una società titolare di farmacie costituisca per un’altra società una mera operazione di investimento e non un’attività direttamente prevista dallo statuto, perché – e soprattutto come – impedire a un medico, solo perché medico, di essere socio della società “partecipante”?
Come vedete, stiamo via via entrando in una selva oscura da cui diventa complicato uscire indenni, dunque con risposte pienamente convincenti per le mille fattispecie che è lecito ipotizzare; per di più parecchie vicende concrete non saranno necessariamente connesse o riconducibili a un gioco di “scatole cinesi”, o di società c.d. carosello, o magari di holding operative ovvero puramente finanziarie, perché potranno anche presentarsi in un primo tempo con contorni netti e in astratto non censurabili, per poi però rischiare cammin facendo di risolversi anch’esse in violazioni del secondo periodo del comma 2 dell’art. 7 della l. 362/91.
Inoltre questi “incastri”, e le conseguenze che possono sotto profili diversi derivarne per l’“esercizio della professione medica”, potranno allo stesso modo riguardare anche i soci‑persone fisiche che svolgano una “qualsiasi altra attività… nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco”, dato che anche per costoro potrà rivelarsi necessario controllare che non si perfezionino partecipazioni vietate.
Ci rendiamo conto che lo spartiacque dello “statuto” può di per sé non essere sempre sufficiente a evitare illecite elusioni di qualche divieto di partecipazione, ma – ferma l’extrema ratio dell’applicabilità dell’art. 1344 cod. civ. – è chiaro che quando il medico o il dirigente di un’industria farmaceutica o l’informatore partecipa alla soc. A, che partecipa alla soc. B, che partecipa alla soc. C, e così via, solo una fittissima ragnatela di controlli può tentare di smascherare l’intruso.
Ma nel concreto, con quali strumenti?”
Chi ha avuto la pazienza di rileggere queste note, con l’interrogativo finale che parla da solo, avrà colto le incertezze che gravano fatalmente su questa vicenda [e che i giudici anconetani non hanno potuto dissipare per l’inequivoca e quasi banale illegittimità della fattispecie sottoposta al loro esame] per l’obiettiva difficoltà per le amministrazioni – alle quali, per il nuovo comma 2 del citato art. 8, deve essere obbligatoriamente trasmesso lo statuto di ogni società titolare di farmacia e comunicata “ogni successiva variazione, ivi incluse quelle relative alla compagine sociale” – di individuare, a carico di vecchi o nuovi soci, posizioni di incompatibilità che non emergano, per così dire, ictu oculi direttamente dallo statuto della società titolare di farmacia o da quelli di società che ad essa partecipino.
Del resto, proprio per questo loro ruolo anche il Tar riconosce alla Fofi, all’Ordine, all’Assessorato regionale e alla Asl [ma, immaginiamo, anche al Comune quando sia quest’ultimo, e non l’ASUR come nella regione marchigiana, competente al rilascio della titolarità dell’esercizio della farmacia e quindi anche alla presa d’atto, ad esempio, di una variazione “relativa alla compagine sociale”] un potere/dovere di controllo – che diventa ovviamente più penetrante, ma non per questo senza limiti, quando ad esercitarlo sia per l’appunto il Comune o, come nelle Marche, l’ASUR – circa l’osservanza anche delle condizioni richieste per l’assunzione dello status di socio, ed è anzi proprio questo potere/dovere che per il Tar “non può non implicare, sul piano della tutela giurisdizionale, la legittimazione e l’interesse ad agire in capo alle medesime autorità in caso di violazioni di tali condizioni”.
È una notazione del tutto condivisibile e tra l’altro, direttamente o indirettamente, rende merito anche alla Fofi [e ancor più, evidentemente, alla Federfarma che ha proposto in via principale il ricorso poi accolto dal Tar] riconoscendone la piena legittimazione ad agire, perché:
– viene fatto “valere in giudizio un interesse istituzionalizzato riferibile all’intera categoria dei farmacisti titolari di farmacie private (oltre 18.000 su tutto il territorio nazionale), consistente appunto nella difesa dell’interpretazione più rigida della disciplina delle incompatibilità di cui agli artt. 7 e 8 della legge n. 362 del 1991, come modificata dalla legge n. 124 del 2017”;
– in particolare, l’interesse azionato nel ricorso [ascrivibile alla categoria unitariamente considerata] è che “sia assicurata la corretta applicazione dell’anzidetta disciplina, che, in quanto volta ad evitare situazioni di conflitto di interessi nel settore farmaceutico, è posta a garanzia del buon funzionamento del complessivo sistema della rete delle farmacie e del servizio farmaceutico in generale, quale condizione indispensabile per la tutela del diritto alla salute”.
Accennando da ultimo al merito della decisione, qui il Tar non poteva francamente che accogliere il ricorso data la macroscopica illegittimità del fatto: può invero una farmacia comunale, all’esito della procedura ad evidenza pubblica, essere mai aggiudicata a una srl uninominale il cui unico socio sia una casa di cura?
E, detto tra noi, come può aver pensato – anche per un solo istante – il comune legale rappresentante della srl e della clinica [perché la stessa persona era/è incredibilmente presidente della prima e amministratore unico della seconda] di cogliere l’obiettivo prefissato partecipando alla gara? E inoltre, come ha potuto l’ASUR – una volta conosciute, se non altro rilevandole dal ricorso e dalle successive memorie difensive delle “controparti”, le gravi carenze commissive ed omissive della sua condotta – non aver optato per una dignitosa marcia indietro?
Ignoranza, arroganza, o che altro?
Certo, qualunque sia la veste e/o la misura della sua partecipazione – come accennato – una clinica non può in principio partecipare a una società titolare di farmacia, e almeno qui non può esserci dubbio; ma il gioco delle scatole cinesi può essere molto più complesso e impenetrabile di un caso addirittura scolastico come questo e dunque i veri nodi di questo autentico intrico sono ancora da sciogliere.
(gustavo bacigalupo)
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