La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29506/20, ha ribaltato il precedente orientamento [sul quale v., in senso critico, Sediva News dell’8 aprile 2019] sul regime fiscale applicabile – per effetto della stipula di un patto di famiglia – alle liquidazioni/attribuzioni di beni e diritti ai colegittimari, cioè ai legittimari del titolare di aziende o quote sociali [che è il disponente] diversi dal legittimario/assegnatario dell’azienda o della quota.
In particolare, nel caso trattato da questa decisione il disponente [e qui naturalmente possiamo immaginare che si sia trattato del titolare in forma individuale di una farmacia o del socio maggioritario di una società titolare di farmacia] aveva trasferito al figlio l’azienda, o la partecipazione di controllo della società, ponendo però a carico dell’assegnatario – all’interno del patto di famiglia – l’obbligo di liquidare alla sorella l’importo di Euro 1.054.000 a tacitazione dei di lei diritti di legittima sull’azienda, o sulla quota sociale, oggetto della disposizione.
La Suprema Corte ha dapprima qualificato civilisticamente il patto di famiglia, affermando l’“inutilità” – come si legge nella decisione – di ricondurre questo istituto a figure già presenti nel nostro ordinamento, essendo un contratto del tutto nuovo che il legislatore ha voluto inserire tra i patti in deroga al divieto dei patti successori.
E questo “non tanto perchè con esso vengono trasferiti per spirito di liberalità determinati beni dell’imprenditore prima dell’apertura della successione (in vista del passaggio generazionale nella gestione dell’impresa), ma perchè, affianco a tale attribuzione, la legge prevede necessariamente [sul ruolo di questo avverbio ci soffermeremo meglio in un’altra occasione] la soddisfazione dei legittimari non assegnatari, mediante assegnazione di un conguaglio (anche in natura) da parte del beneficiario dell’attribuzione [anche su questa notazione dovremo inevitabilmente tornare], anticipando gli effetti dell’apertura della successione tra legittimari ed anche della divisione ereditaria, limitatamente ai beni oggetto di trasferimento, tenendo conto delle quote di legittima, e rafforzando la definitività delle attribuzioni tutte con l’esclusione della collazione e della riduzione”.
Dunque, accanto alla causa di liberalità, rinveniente [e qui non ci sono dubbi] nel trasferimento dell’azienda o della quota sociale, la legge prescrive l’adempimento di un obbligo – la liquidazione dei diritti di legittima degli altri coeredi, sempreché questi ultimi non vi rinuncino espressamente – imposto dalla legge.
E quest’obbligo, prosegue la S.C., è del tutto simile [sic!] all’onere modale imposto su una donazione – con la differenza che in questa seconda ipotesi la fonte è negoziale, mentre nel caso del patto di famiglia è legale – “ma non costituisce il corrispettivo dell’attribuzione ricevuta, ma la ridimensiona, soddisfacendo altri interessi dello stesso disponente e dei terzi destinatari della prestazione”.
E se questa è la premessa civilistica, dal punto di vista fiscale va rammentato – prosegue la Cassazione – che l’art. 58 del T.U. delle Imposte sulle successioni e donazioni [applicabile anche al caso del patto di famiglia] prevede che gli oneri, di cui è gravata la donazione [o il patto di famiglia], che hanno per oggetto prestazioni a soggetti terzi determinati individualmente [come nel caso dell’obbligo dell’assegnatario dell’azienda o della quota di versare la somma di denaro o di cedere beni in natura a tacitazione dei diritti di legittima spettanti al coerede non assegnatario] si considerano donazione a favore dei beneficiari.
Nel concreto, pertanto, sotto l’aspetto tributario si realizza una doppia donazione da parte del disponente: la prima naturalmente eseguita a favore dell’assegnatario dell’azienda o della quota sociale e la seconda a favore del beneficiario dell’onere, quindi della somma di denaro o del bene in natura, posto a carico dell’assegnatario.
Di conseguenza, vanno applicate – sia sull’assegnazione dell’azienda come sulla previsione del precisato obbligo dell’assegnatario e a favore del colegittimario – le aliquote d’imposta e le franchigie previste per le cessioni operate in linea retta, pari al 4%, con la franchigia di 1 milione.
È necessario tuttavia aggiungere che l’assegnazione dell’azienda o della quota è esente anche da imposta di donazione nell’ipotesi in cui l’assegnatario dichiari [all’interno dello stesso patto di famiglia] di proseguire l’attività per cinque anni, una disposizione che non è invece applicabile all’obbligazione che il patto di famiglia pone a carico dell’assegnatario dell’azienda o della quota e a beneficio del colegittimario.
Inoltre, nell’ipotesi in cui l’assegnatario per una ragione qualunque dismetta prima del compimento del quinquennio l’attività aziendale, il valore imponibile a imposta di donazione deve essere assunto al netto dell’avviamento, cosicché nella stragrande maggioranza dei casi non si applica nessuna imposta, trattandosi di un valore generalmente inferiore alla franchigia di 1 milione.
Ma sul patto di famiglia, come accennato, torneremo presto perché l’istituto merita – per la sua importanza sempre crescente anche nel mondo delle farmacie – un’analisi ad ampio spettro.
(gustavo bacigalupo – stefano lucidi)
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