[…all’altro coniuge viene riconosciuto un credito pari al 50% del valore dell’intero complesso aziendale]
L’art. 178 del cod. civ. prevede che “i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione al momento dello scioglimento di questa”.
Si tratta della disciplina che il legislatore del 1975 [l’anno, come i meno giovani ricorderanno certamente, della grande riforma del nostro diritto di famiglia e che, tra l’altro, generò anche l’impresa familiare introducendo nel codice civile l’art. 230 bis] ha riservato ai coniugi in regime di comunione dei beni quando uno di loro – alla data di cessazione del regime per morte, separazione dei beni, separazione legale tra coniugi – sia stato/sia imprenditore individuale, come evidentemente può essere il caso di un titolare di farmacia.
Le SS.UU. della Cassazione con la sentenza n. 15889 del 17/05/2022 hanno dunque risolto un problema dibattuto quasi per mezzo secolo in dottrina e in giurisprudenza e che non era riuscito in tutto questo tempo ad approdare a una soluzione condivisa, affermando il seguente principio di diritto: “nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita [o anche, poniamo, vinta a concorso, ma non se ricevuta per donazione o successione] dopo il matrimonio, e ricadente nella c.d. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data”.
Come vediamo, perciò, neppure per le SS.UU. [come per parecchi altri commentatori] il coniuge non imprenditore assume – alla cessazione del regime di comunione legale – la comproprietà/contitolarità dell’azienda individualmente posseduta fino ad allora dall’altro coniuge, né ancor meno la veste di socio di un esercizio diventato a quel momento comune ai due coniugi [come sarebbe stato astrattamente possibile ipotizzare fino ad oggi, se non altro dopo l’entrata in vigore della l. 362/91, anche per una farmacia a titolarità individuale di uno dei due].
Quindi, almeno questo ventaglio di conseguenze – che francamente sarebbero state eccessive sotto parecchi punti di vista – deve essere scongiurato anche per la Suprema Corte che però, eccoci al punto, configura l’insorgere a carico del coniuge imprenditore, sempre alla cessazione del regime, di un debito pecuniario nei confronti dell’altro corrispondente alla metà del valore dell’intero complesso aziendale.
Conducono a questa conclusione, per la Cassazione, alcune considerazioni connesse alla scelta e allo sforzo del legislatore di raggiungere un bilanciamento tra il principio solidaristico che informa la vita coniugale, da un lato, e la tutela della proprietà privata e della remunerazione del lavoro dall’altro, senza per di più coinvolgere il coniuge non imprenditore nella posizione di responsabilità illimitata dell’altro e assicurando a quest’ultimo la piena libertà di azione nell’esercizio della sua attività di impresa.
Resta fermo in ogni caso [vale la pena sottolinearlo a chiare note] che fino al momento dello scioglimento della comunione egli, cioè il coniuge imprenditore, gode dell’“ancor più piena” libertà d’impresa potendo disporre a suo piacimento degli utili e dei beni aziendali e ovviamente anche dell’azienda come tale, cioè nella sua interezza, con il diritto anche di cederla onerosamente a terzi.
Sono tutte considerazioni, così ancora le SS.UU., “dalle quali è dato ricavare come le esigenze solidaristiche familiari siano state in parte reputate recessive a fronte dell’esigenza di assicurare il soddisfacimento di altri concorrenti diritti di pari dignità costituzionale” e che inducono “a prediligere la tesi della natura creditizia del diritto sui beni della comunione de residuo, tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, tra l’altro garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale, quanto all’impresa, in capo all’altro coniuge, nelle ipotesi dall’art. 178 c.c., evitando un pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori consentendo in tal modo la sopravvivenza dell’impresa e senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa”.
Prevedere d’altra parte l’insorgenza di una comunione sui beni destinati all’esercizio dell’impresa [e quindi, proprio perché trattasi di un’impresa, l’insorgenza di una società anche se di fatto] comporterebbe un abbattimento addirittura per la metà della garanzia patrimoniale inerente ai beni stessi ove caduti in comproprietà con il coniuge non imprenditore alla cessazione del regime, quel che scoraggerebbe – chiosa ancora la sentenza – “i creditori dal continuare a riporre fiducia nella gestione successiva allo scioglimento della comunione legale”.
Inoltre, la ipotizzata “contitolarità” dei beni menomerebbe l’autonomia e la libertà del coniuge imprenditore che il legislatore aveva inteso salvaguardare nella fase precedente allo scioglimento [teniamo infatti sempre presente la costante spinta “pro imprese” dei legislatori dei paesi occidentali, compreso il nostro], con il rischio ulteriore che la conflittualità tra i coniugi in sede di separazione legale possa influire negativamente anche nelle gestioni aziendali.
In caso di morte del coniuge non imprenditore successiva allo scioglimento della comunione legale, per giunta, la denegata conseguenza della contitolarità dei beni dell’impresa verrebbe a creare a sua volta una comunione sui beni di cui all’art. 178 tra il coniuge imprenditore e gli eredi dell’altro coniuge anche estranei al nucleo familiare ristretto, come nel caso in cui dal matrimonio non siano nati figli con la successione dei fratelli del de cuius, ecc.
In definitiva, queste le conclusioni che dobbiamo trarre da questa – non del tutto attesa… – pronuncia della Cassazione [e sono conclusioni con tutta evidenza molto importanti anche nel e per il mondo della farmacia], il coniuge non imprenditore si vede riconoscere dal ns. supremo organo di giurisdizione un diritto di credito che [magari proprio nel caso della farmacia…] potrebbe rivelarsi in alcune circostanze di importo rilevante, specie se, come c’è da credere, nel valore aziendale, inteso quale complesso organizzato, deve essere incluso anche il valore di avviamento.
È una sentenza, insomma, che farà comunque parecchio discutere, da destra come da sinistra…
(stefano lucidi – gustavo bacigalupo)
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