Con una recentissima ordinanza [n. 21963 del 03/09/2019], la Suprema Corte ha reso alcuni importanti chiarimenti che concernono una vicenda estremamente diffusa, enunciando in primo luogo che la contitolarità di un conto corrente bancario non reca necessariamente con sé la “comproprietà” del denaro ivi giacente.
Quando il conto [quello corrente e/o quello titoli al primo eventualmente collegato] sia stato infatti alimentato con il denaro di uno solo dei cointestatari, aggiunge la Cassazione, il dominus del conto e dunque del suo ammontare [e/o titoli] in giacenza è quest’ultimo.
Abbiamo detto dominus, e non proprietario, perché chi ha alimentato il conto assume giuridicamente la veste di creditore verso la banca, dato che è l’istituto [che detiene il denaro] a diventarne proprietario anche se è obbligato evidentemente, secondo il contratto bancario, a eseguire le disposizioni al riguardo impartite sia dal dominus che dal cointestatario.
Infatti, la cointestazione consente soltanto, in principio, che l’altro cointestatario possa effettuare operazioni sul conto con effetto liberatorio verso la banca senza che il dominus possa vantare ragioni creditorie di qualsiasi natura nei confronti dell’istituto.
Non così, invece, nel rapporto tra i cointestatari, perché – se il cointestatario “non proprietario” preleva indebitamente denaro dal conto cointestato – sarà tenuto [in caso di contestazione da parte del dominus e/o suoi eredi] a rimetterne l’importo, anche se, attenzione, la cointestazione di per sé fa sorgere una “presunzione” di “comproprietà”/contitolarità tra i due cointestatari del credito verso la banca, quindi valida solo fino a prova contraria [che tuttavia a sua volta in questo caso non tollera limitazioni].
Ma quando la cointestazione del conto diventa anche “comproprietà”/contitolarità del credito verso l’istituto?
Precisa la Cassazione, e non si può non essere d’accordo specie se consideriamo le premesse, che perché una “comproprietà” tra i cointestatari sia configurabile è necessario che il dominus ceda all’altro cointestatario – tutto o in parte ma formalmente [quindi con un negozio di cessione a titolo oneroso o con un atto di liberalità] – il suo credito verso la banca, pure se, per la verità, anche un’operazione del genere può creare complicazioni con gli aventi causa delle parti in gioco.
In definitiva, come vediamo, si tratta indubbiamente di una pronuncia dalle numerose implicazioni e comunque di sicuro rilievo pratico, perché riguarda una fattispecie molto comune per di più coinvolgente assai spesso rapporti di coniugio e/o di parentela, con tutto quel che può derivarne sia in vita che in caso di decesso di uno dei cointestatari.
(stefano lucidi)
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