Una Commissione ispettiva – una commissione particolarmente edotta, non c’è che dire… – in un verbale recentemente redatto a carico di una farmacia ha evocato la sentenza n. 55515/2018 della Cassazione, che riguarda una vicenda che naturalmente è ben conosciuta [e di cui anche in questa Rubrica abbiamo parlato più volte] ma che ci offre il destro per riparlare di condotte che, come quella enunciata nel titolo, il codice penale riconduce nella somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica.
Il fatto storico deciso dalla Suprema Corte vedeva coinvolti un farmacista e un dipendente amministrativo, entrambi impiegati presso una farmacia ospedaliera e ai quali la Procura aveva contestato sia il reato di cui all’art. 445 cod. pen., sia quello di lesioni colpose connesse all’erronea somministrazione di un farmaco diverso da quello prescritto dai sanitari.
Dalla ricostruzione operata dal Giudice di primo grado si apprende che la persona offesa aveva subìto un trapianto epatico e che, all’epoca dei fatti, aveva raggiunto una ridotta funzionalità renale tanto che i medici curanti avevano deciso di introdurre un nuovo farmaco immunosoppressore.
Il paziente si era quindi recato presso il servizio farmaceutico della A.S.P. di pertinenza per acquistare tale nuovo farmaco.
Qui l’imputato-farmacista, con l’assistenza del coadiutore amministrativo, gli aveva consegnato per errore un farmaco diverso, un antitumorale utilizzato nei cicli di chemioterapia.
Il paziente, dopo l’assunzione del medicinale, aveva iniziato a manifestare gravi e debilitanti sintomatologie sin dai primi giorni di assunzione del farmaco, erroneamente valutate dal medico curante in termini di gastroenterite acuta.
Il Tribunale aveva ritenuto accertato, sulla base della consulenza tecnica del P.M., che l’assunzione di tale farmaco per un periodo di circa quaranta giorni (cioè fino a quando il paziente si era reso conto dell’errore) avesse provocato un repentino peggioramento della funzionalità renale, ridotta fino allo 0%, allorché aveva dovuto iniziare la dialisi nell’arco di un anno, giungendo così a una sentenza di affermazione della penale responsabilità tanto del farmacista come del coadiutore amministrativo.
La Corte di Appello territoriale aveva però ribaltato l’esito tanto da assolvere gli imputati dal reato ascritto di cui agli artt. 445, 452 c.p. e dal reato di cui all’art. 590 c.p.
Il fondamento motivazionale seguito in questa fase si è basato sulla ritenuta natura di reato proprio del delitto previsto e punito dall’art. 445 c.p., tanto da non consentire di ascrivere la condotta delittuosa ai due imputati, che pacificamente lavoravano alle dipendenze dell’A.S.P. presso la struttura farmaceutica, l’uno quale dirigente farmacista e l’altro quale coadiutore amministrativo, e che dunque, come tali, non avevano la qualifica di soggetti che esercitano il commercio.
Con riguardo al delitto di lesioni colpose, la pronuncia assolutoria è stata fondata dalla Corte distrettuale sul rilievo che non fosse certa la sussistenza della lesione perché il giudice di primo grado aveva omesso di accertare la misura dell’insufficienza renale prima del fatto in relazione all’insufficienza renale susseguente all’uso del farmaco, non potendosi affermare con certezza che la funzione renale, già estremamente ridotta, fosse stata ulteriormente indebolita dall’assunzione del farmaco diverso da quello prescritto.
- La decisione della Cassazione e il punto di diritto
La Suprema Corte ha accolto il ricorso proposto dalla parte civile (il paziente, ovviamente) e la pronuncia è di interesse in ragione, particolarmente, degli aspetti giuridici relativi alla configurabilità – a carico del farmacista – della fattispecie di reato di cui all’art. 445 cod. pen.
In tal senso, di seguito, si riporta per semplicità il significativo passaggio della parte motiva della sentenza in commento:
“La Corte di Cassazione ha, infatti, avuto modo di chiarire, sia pure per distinguere il commercio di farmaci da canali alternativi di smercio di anabolizzanti, previsti dall’art. 9, comma 7, I. 14 dicembre 2000, n. 376, che tanto le farmacie aperte al pubblico, quanto le farmacie ospedaliere, o i dispensari aperti al pubblico, così come le altre strutture che detengono farmaci direttamente sono da considerare punti vendita (Sez.2, n. 7081 del 09/10/2003, Randazzo, Rv. 2307901). Perché si possa ritenere integrata la condotta tipica del reato previsto dall’art.445 cod. pen. è, dunque, necessario e sufficiente che l’attività di commercio di sostanze medicinali sia svolta in forma continuativa e con il supporto di una pur elementare organizzazione (Sez. U, n. 3087 del 29/11/2005, dep. 2006, Cori, in motivazione; Sez. 2, n. 21324 del 29/03/2007, Giraudo, Rv. 23703601).
Risulta, pertanto, frutto di un’erronea interpretazione della legge penale l’affermata estraneità della condotta contestata agli imputati alla fattispecie tipica del reato di cui all’art.445 cod. pen., posto che le farmacie ospedaliere svolgono, al pari delle altre farmacie, attività continuativa ed organizzata di commercio di sostanze medicinali”.
Come si vede, in definitiva, anche questa vicenda – per il suo sviluppo processuale e ancor più naturalmente per le conclusioni che abbiamo appena letto – invita il farmacista e i suoi collaboratori alla massima attenzione [posto che di questi tempi sia necessario… un ulteriore invito in tal senso] nella dispensazione del farmaco, imponendo loro costantemente prudenza, informazione e formazione.
(federico mongiello)
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