La cessione – a titolo oneroso o gratuito, non fa differenza – di una farmacia individualmente posseduta determina, ove il contratto non disponga diversamente [come invece spesso è…], la cessione dei crediti e dei debiti aziendali all’acquirente.
Rispetto ai debiti, la regola generale [art. 2560 cod.civ.] vuole che – quando “risultano dai libri contabili obbligatori” [fatti salvi quelli inerenti ai rapporti di lavoro, come abbiamo rilevato altre volte] – ne risponda anche l’acquirente in solido con il cedente, a meno che non siano stati dichiaratamente oggetto di accollo da parte del primo e i creditori abbiano consentito alla liberazione del venditore che solo in tale evenienza uscirebbe ovviamente di scena.
Discendendo dunque la responsabilità solidale dell’acquirente di diritto dal codice, è inopponibile a qualsiasi terzo un qualunque patto contrario intercorso tra cedente e cessionario, cosicché – se non hanno prestato il consenso alla liberazione del venditore – i creditori possono rivolgersi indifferentemente a quest’ultimo come all’acquirente, salvo il diritto del cessionario, quando sia lui a pagare, di rivalersi nei confronti del cedente.
Proprio per tale esposizione dell’acquirente alle pretese dei creditori aziendali, si tende a prevedere nel contratto – quando, beninteso, l’ammontare dei debiti residui non sia stato oggetto, come accennato, di accollo liberatorio per il cedente [e, per questo, non sia stato pertanto decurtato dal prezzo di cessione] – che il pagamento di una parte, anche rilevante, del corrispettivo avvenga in un tempo successivo alla cessione [e su cui di conseguenza l’acquirente possa esercitare le sue ragioni di rivalsa], oppure, più frequentemente, che sia effettuato direttamente in mani dei creditori aziendali contestualmente [o giù di lì] al rogito di cessione.
Ora, fatte queste premesse, dobbiamo dar conto di una recentissima sentenza della Suprema Corte [n. 39545 del 19 ottobre u.s.] che ha affermato la configurabilità del reato di truffa ex art. 640* c.p., per giunta nella forma aggravata, quando sia dimostrato che il cedente [stiamo sempre parlando, giova ribadirlo, della cessione – a una persona o a una società, di persone o di capitali – di una farmacia posseduta in forma individuale, che peraltro era esattamente la fattispecie decisa dalla Cassazione] abbia taciuto l’esistenza o la vera consistenza di passività aziendali, delle quali il cessionario sia stato chiamato a rispondere in via solidale con il cedente.
*NB. Art. 640 c.p.: “Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032”
Qui la Suprema Corte ha ribadito un orientamento giurisprudenziale secondo cui “integra l’elemento costitutivo del reato di truffa anche la sola menzogna, costituendo una tipica forma di raggiro”, con l’ulteriore precisazione, tra l’altro, che con menzogna si intende qualsiasi fatto “attraverso il quale si crea una suggestione che tende ad insinuare nella mente della parte offesa un erroneo convincimento su una situazione che non ha riscontro nella realtà”.
Ebbene, in questa vicenda l’aver taciuto sulle “pendenze economiche” [così le definisce la Corte] della farmacia è per l’appunto riconducibile a una menzogna che la sentenza definisce “aggressiva” in quanto volta a indurre in errore la parte offesa convincendola a stipulare un contratto [che non avrebbe concluso, o avrebbe potuto non concludere, se avesse saputo dell’esistenza o della vera consistenza del debito] al fine di procurarsi un vantaggio, cioè quell’“ingiusto profitto” evocato nell’art. 640 c.p.
Pertanto, conclude la Cassazione, sussiste il dolo che è proprio del reato di truffa e la condotta tenuta dal cedente configura esattamente “quell’avvolgimento psichico che è dell’elemento costitutivo del delitto in esame”.
Aggiungiamo, per una migliore intelligenza della questione, che la “truffa per omissione” – tale è/sarebbe quella individuata qui dalla Corte – è una fattispecie del reato in argomento largamente dibattuta, dato che, mentre per la dottrina l’omissione di informazioni non può in principio integrare il reato di cui all’art. 640 c.p., per la giurisprudenza, invece, il tacere determinati fatti [ancor più, evidentemente, quando sussistano obblighi di informazione imposti dall’ordinamento] può configurare quell’artificio o raggiro che, come abbiamo visto, è elemento costitutivo della fattispecie legale delineata nell’art. 640 c.p.
È una posizione, questa assunta dalla giurisprudenza, che si fonda dichiaratamente – nonostante, lo ripetiamo, il diverso avviso della dottrina – sull’esigenza di difesa del principio di buona fede e di solidarietà, perché anche le condotte meramente omissive possono ledere il bene giuridico del patrimonio e della libertà di autodeterminazione.
Per quanto ci riguarda, è un orientamento che non è facile condividere [o, quantomeno, il suo ambito applicativo dovrebbe restare ben circoscritto] soprattutto in tema di cessione di azienda dove il comportamento della [pretesa] vittima del reato – che anche nella fattispecie decisa dalla Corte sembra abbia mostrato una notevole negligenza, anche se una “media diligenza” non gli richiede necessariamente una preventiva due diligence – dovrebbe francamente essere valutato anche in sede penale, tanto più quando la norma civilistica, di cui la Cassazione ha invece pensato bene di disinteressarsi del tutto, abbia fornito all’acquirente strumenti adeguati di difesa dei propri interessi e di tutela della buona fede che giustamente preme tanto alla Corte.
Ma quest’ultima non sembra sentire ragioni: anche se il cedente può vedersi anch’egli coinvolto – insieme al cessionario – nelle pretese del creditore, questo non esclude il realizzo da parte sua di un ingiusto profitto consistente, come accennato, nell’aver indotto l’acquirente – con l’artificio/raggiro della menzogna – a concludere un contratto che [verosimilmente] non avrebbe concluso conoscendo la passività, e/o la sua effettiva consistenza, nascostagli dalla controparte.
E però, anche se opinabile, questa è la tesi fatta ormai definitivamente propria dai giudici di legittimità, con la quale dunque un venditore – di una farmacia come di una qualsiasi altra azienda, e non importa se persona fisica o società – rischia, in caso di eccessiva disinvoltura nella fase delle trattative, di dover fare i conti.
(cesare pizza – gustavo bacigalupo)
La SEDIVA e lo Studio Bacigalupo Lucidi prestano assistenza contabile, commerciale e legale alle farmacie italiane da oltre 50 anni!