In una recente risposta ad interpello (n. 796 del 01/12/2021) l’Agenzia ha arricchito la casistica di “trust inesistente” – perlomeno ai fini fiscali – nozione questa che reca con sé l’immediata conseguenza di imputare direttamente al disponente [e cioè al soggetto che lo ha istituito], e secondo i principi generali previsti per ciascuna delle categorie reddituali di appartenenza, i redditi formalmente prodotti dal trust.
Rammentiamo sinteticamente che il trust è un istituto giuridico tipicamente anglosassone, riconosciuto in Italia per effetto della L. 364/1989, legge di ratifica ed esecuzione della “Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento” adottata a L’Aja il 1/7/1985.
Ai sensi dell’art. 2 della Convenzione, “per trust si intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente, con atto tra vivi o mortis causa, qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee, nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato”.
Dunque, il disponente istituisce il trust con un atto pubblico (notarile), con cui egli conferisce in un fondo [il c.d. “fondo in trust”] beni e diritti [i c.d. “beni in trust”] – tra i quali può essere annoverata, pur se non del tutto pacificamente, anche una farmacia – che sono bensì intestati a un trustee [o a un altro soggetto per conto del trustee, anche se questa non pare un’ipotesi percorribile quando l’oggetto del trust sia appunto una farmacia], ma che, per effetto della loro “segregazione, che è un profilo strutturale del trust, formano una massa distinta dal patrimonio personale del trustee, non diventandone parte neppure per un momento.
E quindi, ad esempio, i “beni in trust” non entrano mai neppure nella disponibilità degli eredi del trustee [altro aspetto di grande importanza, come forse è noto], con le rilevanti conseguenze che ne possono derivare anche sul versante strettamente civilistico.
Il disponente deve aver cura di individuare la finalità e la durata del trust, il suo beneficiario, la legge regolatrice applicabile [in questo momento necessariamente straniera e verosimilmente anglosassone], i poteri e i compensi del trustee, come anche i suoi doveri e responsabilità, l’obbligo del rendiconto verso il trust e verso i terzi, la nomina di un eventuale guardiano [una sorta di “controllore” dell’esatto adempimento degli obblighi da parte del trustee], che può essere anche lo stesso disponente, e quant’altro necessario per un compiuto regolamento, inclusa l’eventuale facoltà per quest’ultimo di nominare al ricorrere di certe condizioni un altro e diverso trustee, evidentemente in possesso anch’egli [ove si tratti di una farmacia] di tutti i requisiti professionali tuttora richiesti, come sappiamo, per assumerne la titolarità in forma individuale.
Il trust è comunque uno strumento che si presta a molti utilizzi, tutti accomunati, come detto, dall’elemento distintivo della segregazione di un patrimonio al servizio di un determinato scopo, ma non è un mistero che il Fisco guardi a quest’istituto – come abbiamo visto, perfettamente legittimo – con diffidenza, per il rischio che si presti ad abusi e a manovre elusive proprio evidentemente per la sua attitudine (potenziale) a “schermare” persone e patrimonio.
Sempre dal punto di vista fiscale, con la L. 27/12/2006 n. 296 (Finanziaria 2007) è stato modificato l’art. 73 TUIR inserendo il trust tra i soggetti passivi IRES, prevedendo specifici criteri sia per la determinazione della sua residenza, sia per distinguere ai fini delle imposte dirette il trust con beneficiari individuati (c.d. “trust trasparente”) da quello senza beneficiari individuati (c.d. “trust opaco”).
Tuttavia, perché un trust possa come tale essere qualificato soggetto passivo [ai fini delle imposte sui redditi] – effettivamente distinto, intendiamo dire, dal soggetto che lo dispone e quindi titolare di redditi propri – deve riscontrarsi un requisito essenziale e cioè l’effettivo potere del trustee di amministrare e disporre dei beni a quello affidati dal disponente.
Nella prassi dell’Agenzia delle Entrate [cir. 27/12/2010 n. 61/E; cir. 10/10/2009 n. 43/E] sono già state individuate ipotesi in cui il trust debba ritenersi almeno fiscalmente inesistente, e cioè quando:

  • il disponente o il beneficiario possono far cessare liberamente il trust in ogni momento [generalmente] a proprio vantaggio o anche a vantaggio di terzi;
  • il disponente o il beneficiario risultano [dall’atto istitutivo ovvero da altri elementi di fatto] titolari di poteri in conseguenza dei quali il trustee – pur dotato di discrezionalità nella gestione e amministrazione del trust, non può esercitarla senza il loro consenso;
  • il potere gestionale e dispositivo del trustee, così come individuato dal regolamento del trust o dalla legge, risulti in qualche modo limitato o anche semplicemente condizionato dalla volontà del disponente e/o dei beneficiari.

In tutti questi casi il trust si configura come struttura meramente interposta rispetto al disponente, a cui devono continuare ad essere attribuiti i redditi [solo formalmente] prodotti dal trust.
Ai casi appena ricordati si aggiunge ora anche il caso – individuato dall’Interpello dell’Agenzia delle Entrate citato all’inizio – in cui il trustee non possa esercitare i suoi poteri senza il consenso dei beneficiari.
Anche in questa evenienza, come del resto i precedenti richiamati, i redditi formalmente prodotti dal trust saranno assoggettati a tassazione in capo al disponente secondo, come abbiamo sottolineato poco fa, i princìpi generali previsti per ciascuna delle categorie reddituali di appartenenza.

(stefano civitareale – gustavo bacigalupo)

 

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