Nutriamo seri sospetti che il magazziniere della farmacia abbia, nel tempo, sottratto sia denaro che merce anche se non ho prove schiaccianti.
Posso licenziarlo in tronco? Qual è il momento migliore per inviare la lettera di contestazione disciplinare? Posso comunque installare un sistema di videosorveglianza?

Un dipendente che ruba può essere licenziato: su questo non c’è dubbio. Alcuni comportamenti – tanto più se penalmente rilevanti – possono avere, infatti, ripercussioni sul rapporto di fiducia tra lavoratore e azienda, a prescindere dal fatto che essi vengano posti in essere durante il turno di lavoro o in altro frangente.

Occorre tuttavia individuare il momento in cui il licenziamento può avvenire: se vi è certezza circa la commissione di un fatto di reato, non si pongono generalmente problemi.

Ma che accade se siamo in presenza di semplici indizi? Si può cioè licenziare un lavoratore sospettato di furto?

  • Principio di tempestività e presunzione d’innocenza

Sul punto è intervenuta abbastanza recentemente un’ordinanza della Cassazione (Cass. Sez. Lav. 22 giugno 2020, n. 12193).

Ora, analizzando i termini del problema, qui non viene in rilievo – si badi bene – il licenziamento per giusta causa, intimato dinanzi all’evidenza di un illecito disciplinare grave, derivante da comportamenti oggettivamente ed immediatamente verificabili (come può essere ad esempio un grave e conclamato fatto di insubordinazione al datore di lavoro o il tentativo di aggressione ai danni del titolare o anche di un collega).

La questione che invece vogliamo trattare, nel domandarci se si possa licenziare o meno un lavoratore sospettato di furto, ricade piuttosto nell’ambito di quell’incertezza che, in assenza di “prove provate”, solo un processo penale – e il rispetto delle regole che lo governano – può sciogliere.

E allora si scontrano, da un lato, il principio della presunzione di innocenza [come noto, “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”] e, dall’altro, il principio di c.d. tempestività [secondo cui, qualora il datore di lavoro intenda contestare una condotta illegittima del lavoratore, dovrà farlo senza ritardo e comunque nel minor tempo possibile].

Circa il  requisito della c.d. “tempestività”, la Suprema Corte ha più volte affermato che nella contestazione disciplinare essa rappresenta [si pensi!] una condizione di validità del licenziamento; viceversa, la violazione del detto principio determinerà la illegittimità del licenziamento con la conseguenza che il dipendente potrà richiedere la corresponsione di una somma a titolo risarcitorio.

Per queste ragioni ci pare che il datore di lavoro, prima di assumere decisioni del genere, debba in ogni caso procedere a una attenta ponderazione degli elementi in suo possesso proprio per non rischiare seriamente che il lavoratore possa fare causa all’azienda e richiedere, quale conseguenza dell’annullamento del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro [oltre alla corresponsione di un’indennità risarcitoria], ricordando una vicenda – peraltro non straordinaria nel suo andamento – che qualche anno fa aveva interessato una farmacia, che per una questione di forma, si vide annullare dopo quattro anni il licenziamento e condannata a liquidare al dipendente la bellezza di 80mila euro!

  • Cosa fare in presenza di meri “sospetti” e non di prove?

La questione è stata posta all’attenzione della Cassazione la quale ha affermato che in tema di licenziamento disciplinare, nel valutare l’immediatezza della contestazione, occorre tener conto di due contrapposti interessi: quello del datore di lavoro a non avviare procedimenti disciplinari senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e quello del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dal momento della loro commissione.

Ne consegue che l’aver presentato a carico di un lavoratore la denuncia di un fatto penalmente rilevante connesso con la prestazione lavorativa (come nel caso di furto in azienda) consente al titolare di farmacia di non attendere gli esiti del processo penale sino alla sentenza irrevocabile prima di procedere al licenziamento.

Bisogna infatti valutare appunto la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore appaiano ragionevolmente sussistenti, con la precisazione peraltro che:

  • se il sospetto non dovesse essere poi confermato nel corso del processo penale e il lavoratore dovesse risultare innocente, il datore di lavoro potrebbe essere chiamato a reintegrarlo sul posto;
  • qualora invece il datore di lavoro decida di attendere quantomeno gli esiti delle indagini preliminari, il provvedimento di licenziamento potrebbe essere considerato tardivo.

In alternativa potrebbe sottoporsi il lavoratore ad una sospensione cautelare dalle mansioni in attesa della decisione finale dei giudici.

Nel caso affrontato dalla Cassazione, il datore di lavoro – che aveva sporto denuncia per i fatti oggetto del procedimento disciplinare – avrebbe disposto, già all’epoca dei fatti, di elementi sufficienti a ritenere i fatti stessi ragionevolmente sussistenti molto tempo prima della consegna della lettera di contestazione.

Per tale ragione, la lettera – consegnata solo dopo quattro anni dal momento della commissione dei fatti – sarebbe risultata tardiva, e il licenziamento illegittimo.

In questa pronuncia la Cassazione ribadisce perciò il proprio consolidato orientamento secondo cui il principio di immediatezza della contestazione disciplinare non consentirebbe al datore di lavoro di rimandare il momento di presentazione della contestazione, così da rendere impossibile o eccessivamente difficile la difesa del lavoratore.

La presentazione, da parte del datore di lavoro, di una denuncia idonea a determinare l’avvio di indagini non esclude però l’onere per lo stesso di promuovere tempestivamente il procedimento disciplinare contro il lavoratore, non sottoposto a sospensione cautelare, a carico del quale egli abbia già rilevato elementi di responsabilità.

  • L’installazione di telecamere sul luogo di lavoro

Sicuro elemento deterrente, nonché fonte di possibili prove, potrebbe indubbiamente rivelarsi l’istituzione di un sistema di videosorveglianza, purché regolamentato secondo rigide norme applicative.

In buona sostanza, le telecamere sul posto di lavoro possono considerarsi lecite unicamente al fine di perseguire specifici scopi, cioè: 1) per esigenze dell’organizzazione e della produzione (si pensi  ad esempio a una telecamera posta sull’uscio della farmacia per vedere se entrano clienti); 2) per la sicurezza del lavoro (è il caso della telecamera che riprende ambienti che, per le loro condizioni intrinseche o per i macchinari che ospita, siano pericolosi per il personale e/o per i terzi); 3) per la tutela del patrimonio aziendale (quel che vale, ad esempio, per le telecamere nei supermercati che servono a identificare furti che altrimenti sarebbero all’ordine del giorno).

In tutte le eventualità diverse da quelle appena accennate, quindi, l’installazione di un impianto di videosorveglianza sul posto di lavoro deve considerarsi illegittima, con la conseguenza che in nessun caso il datore di lavoro è autorizzato a installare telecamere in azienda al fine di “supervisionare” le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa da parte dei dipendenti.

Egli potrà, al più, procedere all’installazione o all’utilizzazione di mezzi di questo tipo al solo fine di tutelare la farmacia da possibili pericoli, oltre che per esigenze organizzative e produttive (c.d. controlli difensivi), con la conseguenza che, qualora la videosorveglianza sia utilizzata allo scopo di evitare condotte quali possibili furti da parte dei dipendenti, essa potrebbe considerarsi riconducibile alle ipotesi – consentite – di controllo per la tutela del patrimonio aziendale.

Il che, con l’ovvia precisazione – s’intende – che la tutela del patrimonio aziendale non può trasformarsi in strumento di “abuso” da parte del datore di lavoro, che sarà in ogni caso chiamato a rispettare i principi di determinatezza e proporzionalità rispetto al fine perseguito.

In altre parole, le tipologie di monitoraggio da eseguire andranno valutate con gradualità, potendosi ritenere legittime forme di controllo più “invasive” solo in caso di effettiva rilevazione di comportamenti scorretti (come furti conclamati).

In conclusione, la tutela del patrimonio aziendale giustifica l’installazione di un impianto di videosorveglianza soltanto laddove il datore di lavoro abbia ragionevole motivo di credere che nell’azienda si verifichino furti o altre condotte illecite, ovvero qualora – per le caratteristiche dell’attività lavorativa – sia opportuno appunto “supervisionare” l’attività dei dipendenti così da evitare gravi perdite aziendali (circostanza, quest’ultima, che ben potrebbe ipotizzarsi in presenza di beni facilmente sottraibili, come merce sugli scaffali).

  • Videosorveglianza: è legittima in caso di sospetto di furto da parte del dipendente?

Infine, alla luce di quanto sin qui esposto, è possibile dunque fornire risposta affermativa al quesito posto al riguardo, tanto più se consideriamo che la Suprema Corte ha ribadito sul punto che il datore di lavoro può legittimamente installare – in presenza delle condizioni di cui si è parlato – impianti di videosorveglianza nei locali aziendali, potendo comunque anche utilizzare in sede giudiziaria, quale mezzo prova, le registrazioni in suo possesso.

(federico mongiello)

(cecilia v.sposato)

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