[…il lavoro del familiare in farmacia deve essere continuativo e prevalente, perché diversamente il rischio sul piano fiscale è che l’i.f. non venga riconosciuta]

Volendo far partecipare mia figlia, che in questo momento studia Farmacia in una università lontana da casa, ai risultati economici della mia farmacia, alla fine dello scorso anno ho costituito con lei un’impresa familiare; ho il dubbio di aver sbagliato perché il contributo di mia figlia alla gestione della farmacia è inevitabilmente molto ridotto e quindi attribuirle alla fine dell’anno una quota di utili potrebbe essere anche contestabile.
Per evitare qualunque problema potrei costituire con lei una società, forse una sas in cui lei sia l’accomandante, ma questa soluzione voglio rinviarla a quando saranno maggiorenni anche gli altri due figli in modo da poter valutare con tutti loro il destino della farmacia.
Nella vostra pubblicazione Piazza Pitagora abbiamo rinvenuto 4 o 5 vs. Sediva news sull’impresa familiare in cui avete parlato di una certa tolleranza del Fisco sulle imprese familiari.
Cosa mi consigliate?

Intanto, come altre volte, è opportuno riportare le disposizioni applicabili in questa vicenda, abbastanza comune anche nelle farmacie ma da qualche anno meno diffusa anche per l’intervenuta apertura ai non farmacisti della partecipazione a società, di persone come di capitali, titolari di una o più farmacie.
In pratica, però, i titolari in forma individuale – intendendo avviare una “prima” sistemazione della posizione anche economica di un figlio, farmacista o non farmacista – preferiscono talora accantonare la via dell’impresa familiare [anche per quel che diremo proprio con riguardo alla fattispecie delineata nel quesito, da par suo non infrequente] e deviare direttamente verso la sua partecipazione alla farmacia nella veste di socio, prestando naturalmente attenzione particolare al superamento degli ostacoli che, sul piano delle incompatibilità, frappone sub a), b) e c) il comma 1 dell’art. 8 della l. 362/91.
Ma, come leggiamo nel quesito, per Lei non è questa una soluzione adottabile al momento e dunque restiamo all’ipotesi – che intende privilegiare e ne spiega le ragioni – dell’impresa familiare, che del resto ci pare sia stata da voi già formalizzata in tempo utile per poter avere esecuzione anche con riguardo all’anno in corso, cosicché questa nostra disamina potrà forse indirizzarLa per un accantonamento [se pur momentaneo] dell’i.f., perlomeno ai fini dell’attribuzione degli utili d’impresa di quest’anno.
Vediamo allora in primo luogo che cosa ci dicono le due norme che qui ci interessano e che – come largamente illustrato in circostanze diverse nel corso di questi ultimi quarant’anni – sono l’art. 230 bis del cod. civ. e l’art. 5 del TUIR [“Testo unico delle imposte sui redditi”, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917], rispettivamente sul piano civilistico e su quello meramente tributario.

  • 230 bis, comma 1, cod. civ.

“Salvo che sia configurabile un diverso rapporto [2094,2251], il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato [36 Cost]. Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi [316].

  • D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 [“Testo unico delle imposte sui redditi.”: si tratta del c.d. T.U.I.R.]:
    Art. 5, comma 4 e 5 [Redditi in forma associata]

Comma 4. I redditi delle imprese familiari di cui all’articolo 230-bis del codice civile, limitatamente al 49 per cento dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. La presente disposizione si applica a condizione:

a) che i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo di imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti;
b) che la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente nel periodo di imposta;
c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.

Comma 5. Si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado.
L’art. 230bis del cod. civ. prevede quindi che – “salvo che sia configurabile un diverso rapporto” [tra il titolare e il familiare, naturalmente, come ad esempio potrebbe essere il caso di un rapporto di lavoro dipendente] – il familiare che presta “in modo continuativo” la propria attività lavorativa “nella famiglia o nell’impresa”, oltre ad avere diritto al mantenimento, partecipa agli utili dell’esercizio “in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”.
Dunque, uno dei requisiti strutturali dell’i.f., perciò essenziali per la sua configurabilità, è lo svolgimento “in modo continuativo” da parte del collaboratore di prestazioni lavorative, indifferentemente, “nella famigliaonell’impresa” familiare.
L’art. 5 del Tuir, invece, oltre a circoscrivere l’attività di lavoro del collaboratore nella o per l’impresa [tacendo quindi della “famiglia”], aggiunge al requisito della continuità delle prestazioni, come abbiamo visto poco fa, anche la prevalenza, da considerare con riguardo a eventuali altre e/o diverse attività lavorative del familiare.
In sostanza, la normativa fiscale riconosce la sussistenza dell’impresa familiare sul versante che le è proprio, ammettendo di conseguenza l’attribuzione di utili d’esercizio ai familiari – sia pure nel limite, complessivo per tutti i collaboratori dell’i.f., del 49% [un tetto invece non apposto dalla norma civilistica], pertanto con la riserva fiscalmente irriducibile del 51% a favore del titolare – soltanto in presenza [anche] del requisito della continuità e di quello della prevalenza.
Se pertanto, ad esempio, Sua figlia esercitasse – compatibilmente, s’intende, con gli studi universitari – la professione sanitaria di dietista, anche ricavandone magari profitti di elevata consistenza e/o semplicemente dedicandole la gran parte della propria giornata lavorativa, un’impresa familiare correttamente formalizzata potrebbe essere “difesa” anche sotto l’aspetto fiscale, laddove però tale professione Sua figlia l’esercitasse all’interno della farmacia [come del resto l’art. 102 TU.San. consente].
Ben diversa è invece la vicenda che Lei descrive, perché non è seriamente sostenibile – sempre fiscalmente, s’intende, perché dal punto di vista civilistico abbiamo visto come le cose vadano altrimenti – l’attribuzione di un reddito di partecipazione [nonostante l’avvenuta costituzione di un’impresa familiare tra voi] a chi sia uno studente universitario con residenza in una città diversa da quella dove è in esercizio la farmacia, trattandosi infatti di una fattispecie in cui sarebbe arduo individuare nell’ipotetica collaborazione di Sua figlia il carattere della prevalenza [rispetto, in questo caso, all’attività di studente universitario] e men che meno quello della continuità.
Si consideri per di più che anche sull’impresa familiare l’Amministrazione finanziaria sembra ora volerci veder chiaro, o almeno più chiaro rispetto al passato, specie se teniamo conto che fino a qualche tempo fa gli Uffici fiscali avevano mostrato verso questo istituto un atteggiamento quasi agnostico, quindi poco incline a indagini o penetrazioni  specifiche nel cuore dell’i.f. e dei suoi presupposti, controllando soprattutto che il titolare non denunciasse un reddito inferiore al 51% dell’intero, ma generalmente disinteressandosi della prevalenza, per la quale a tutto concedere il Fisco sembrava guardare più che altro a un criterio puramente reddituale.
Come pure non si interessava granché di verificare la sussistenza nel concreto della continuità  delle prestazioni lavorative e neppure – salvi casi clamorosi – la corrispondenza dell’entità [a parte il rispetto del 51 e del 49%] degli utili attribuiti ai collaboratori familiari alla qualità e quantità delle loro prestazioni e dunque ignorando nei fatti che questa è una corrispondenza/proporzionalità imposta sia dal codice che dal DPR 917/86.
Ma, come accennato, l’Agenzia delle Entrate sta cambiando da qualche tempo atteggiamento, in particolare contestando l’utilizzo eccessivamente disinvolto – specie in punto di prevalenza, che abbiamo visto essere un requisito richiesto solo dalla norma fiscale – dell’art. 5 del Tuir e provocando così l’intervento della Suprema Corte che [v. Cass. 21/12/2021, n. 40934 e le ancor più recenti Cass. 24/11/2022, nn. 34699 e 34702, e Cass. 25/11/2022, n. 34837] ha avuto agio a precisare che “In tema di imposte sui redditi, ai fini dell’applicabilità del regime fiscale dell’impresa familiare, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, commi 4 e 5, è richiesto, tra l’altro, che il lavoro prestato dal collaboratore all’interno dell’impresa familiare sia prevalente rispetto alle altre attività eventualmente svolte“.
È quindi facile intuire che questi recenti arresti giurisprudenziali potranno non lasciare indifferente l’Amministrazione finanziaria, perché notoriamente quest’ultima tarda forse un po’ a entrare in funzione quando i temi non le sono ancora del tutto chiari, ma poi – specie quando è scesa in campo la Cassazione – non ama fare sconti a nessuno.
Insomma, abbiamo l’impressione che anche interventi così decisi della S.C. possano provocare una certa attività di controllo del Fisco –  fino a ieri praticamente quasi inesistente – su un istituto peraltro già molto complesso, articolato e dibattuto come l’impresa familiare, che d’altronde in quasi mezzo secolo di vita dell’istituto ha dato qualche daffare ai magistrati soprattutto sul piano giuslavoristico e molto poco, dicevamo, su quello tributario.
D’altra parte, se leggiamo con un pò di attenzione anche una sola delle sentenze della S.C. sopra citate, vediamo facilmente che si tratta di decisioni che fanno definitiva chiarezza circa la ratio e la specificità – rispetto alla normativa civilistica e lavoristica – di questo ulteriore requisito costitutivo della i.f. [quello appunto della prevalenza], puntualizzando allo stesso tempo anche le (altre) importanti differenze dell’istituto nei due diversi ordinamenti.
Tanto per intenderci, se l’anziana madre del titolare individuale della farmacia [è inutile ricordare che stiamo parlando di un istituto che non può minimamente riguardare le società, di persone o di capitali, ma le sole imprese a titolarità individuale] può legittimamente partecipare all’impresa familiare – ai fini civilistici – anche soltanto occupandosi delle faccende domestiche e degli altri bisogni della famiglia, così non è per la norma tributaria per la quale l’attività lavorativa deve essere svolta nella o per la farmacia.
Così pure, se civilisticamente un familiare può esercitare con fondamento i diritti che possono derivargli dall’impresa familiare di cui sia titolare un parente o un affine anche quando la sua attività lavorativa nella farmacia non sia nella sua vita quella prevalente rispetto ad altre prestazioni di lavoro, così non è per la norma fiscale per la quale, come abbiamo visto ampiamente, perché l’i.f. sia legittimamente invocabile è necessario che il familiare svolga prevalentemente la sua attività di lavoro nella o per l’impresa.
E così conclude la Suprema Corte: “il T.u.i.r. [art. 5, comma 4, lett. c)] richiede, infatti, espressamente la prevalenza del lavoro del collaboratore all’interno dell’impresa familiare rispetto ad altre attività eventualmente esercitate, requisito che non è invece contemplato nell’art. 230 bis c.c.; la specificazione fu appositamente introdotta, a fini antielusivi, dal D.L. n. 853 del 1984, art. 3, comma 12, in base al quale l’indicazione delle quote di partecipazione dei collaboratori viene effettuata a consuntivo e cioè, contestualmente all’attestazione dell’imprenditore in ordine alla corrispondenza delle quote attribuite ai collaboratori alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa da ciascuno di essi in modo continuativo e prevalente;(…)“.
Volendo perciò concludere l’analisi riallacciandoci anche a queste ultime notazioni della Cassazione [e volendo perfino sorvolare sulla difficile configurabilità – ancor più in un caso come questo – di prestazioni di Sua figlia svolte in modo continuativo e prevalente per la farmacia], va da sè che – quanto alla quantità e alla qualità del lavoro ascrivibile all’esercizio – l’attività di studio non può costituire, di per sé e in quanto tale, un contributo effettivo all’esercizio, tanto più che l’università si trova in una città diversa da quella della farmacia.
E’ difficile, insomma, che Lei possa utilizzare la costituita i.f. con Sua figlia sul piano fiscale prima che siano stati completati gli studi universitari e quindi partecipare effettivamente – ma solo da allora – all’impresa familiare.
Lei non ha quindi “sbagliato” – come sembra credere – nell’aver costituito l’i.f. con Sua figlia, perché ci pare che “sbaglierebbe” soltanto se le attribuisse già per quest’anno una qualunque partecipazione agli utili.

(gustavo bacigalupoaldo montini)

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