Recentemente, e anche molto recentemente, parecchie farmacie hanno dovuto subire dalla Guardia di Finanza e/o dai Nas ispezioni [spesso concluse con sequestri] mirate al controllo di qualità/stato/provenienza/autenticità di mascherine presenti in farmacia e naturalmente – tanto più dopo la fissazione autoritativa di un prezzo al pubblico unitario [di Euro 0,50+iva] – anche al controllo per l’appunto dei prezzi praticati e qui conoscete tutti il gran parlare che ne è derivato.

Le vicende occorse – come ben sapete – sono comunque numerose quanto variegate e però in troppe circostanze le farmacie hanno dovuto ingiustamente fronteggiare perfino campagne denigratorie finendo per pagare, per lo più, un “prezzo” per nulla giustificato dai fatti e le loro rappresentanze sindacali stanno meritoriamente reagendo con adeguato vigore.

Qui noi, per una volta a quattro mani, vogliamo fare un cenno alle sole due specifiche questioni riassunte nel titolo, anche per la frequenza con cui abbiamo dovuto registrarle soprattutto in questi ultimi giorni.

Dunque, in particolare, la Polizia Giudiziaria ha ritenuto di verbalizzare e sequestrare:

a) mascherine prodotte/importate in deroga [cioè ex art. 15 Cura Italia e quindi senza la marcatura CE] perché – pur a tempo debito “autocertificate” e accompagnate da schede tecniche – non risultavano ancora, al momento dell’ispezione, validate dall’Istituto Superiore di Sanità [mascherine c.d. chirurgiche] o dall’Inail [DPI: ffp2 e ffp3];

b) e/o mascherine marcate CE, e quindi almeno formalmente commerciabili, ma “corroborate” (si fa per dire…) da certificati di rilascio – redatti dai produttori/importatori e/o consegnati dai fornitori/distributori – rivelatisi non veritieri.

Ora, quanto alle mascherine indicate sub a), va detto che, ad esempio, la Procura di Roma ha rigettato le istanze di dissequestro proprio perché la vendita era avvenuta anteriormente alla validazione dell’ISS o dell’Inail [e soprattutto di quest’ultimo, trattandosi generalmente di DPI in deroga, più che di mascherine chirurgiche in deroga], integrando così a quel momento stesso – secondo la tesi della Procura – il reato di “Frode nell’esercizio del commercio” configurato nell’art. 515 c.p., comma 1 [“Chiunque, nell’esercizio di una attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto, con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a euro 2.065”].

A noi pare invece [pur dovendo ribadire le perplessità da noi espresse sulla ritenuta illiceità della vendita di mascherine in deroga effettuata successivamente alla scadenza dei tre giorni assegnati dall’art. 15 a ISS e a Inail per pronunciarsi: v. Sediva News del 28.04.2020] che i due Enti – anche se investiti dal Cura Italia, per l’urgenza di provvedere al fabbisogno nazionale di mascherine, di un ruolo del tutto nuovo e derogatorio rispetto agli ordinari meccanismi di certificazione – nel momento stesso in cui danno il loro placet alla mascherina prodotta in deroga, senza aver richiesto/richiedere alcuna modifica tecnica al DPI, la validano ab initio.

La validazione, perciò, certifica la conformità delle mascherine sin dall’origine dei requisiti essenziali, rendendo in definitiva lecita la sua vendita al pubblico anche se operata antecedentemente, come d’altronde è chiaro che – vendendo al cliente una mascherina in corso di validazione ma poi effettivamente validata – la farmacia non gli consegnauna cosa mobile per un’altra, cioè una cosa mobile che per origine, provenienza, qualità o quantità diversa da quella dichiarata o pattuita”.

Su questa vicenda, pertanto, verranno probabilmente coinvolte le sezioni del riesame dei vari Tribunali e in ogni caso – se non altro per la difficile configurabilità del dolo nella condotta della farmacia – si può pensare serenamente anche a una richiesta di archiviazione al GIP.

Venendo ora alle mascherine di cui si è detto sub b), nella gran parte – per non dire nella totalità – dei casi si è potuto rilevare che i certificati di conformità erano degli autentici falsi, creati pertanto ad arte per superare il controllo richiesto alla farmacia in fase di acquisto che, come sapete, è circoscritto  alla tracciabilità dell’importatore, alla verifica della presenza del logo CE e appunto del relativo certificato, tanto è vero che, come ha precisato Cass. Pen. n. 50783/2019, “La responsabilità di dichiarare la conformità con tutti i requisiti ricade esclusivamente sul produttore”.

Ma anche qui, come dicevamo, sono intervenuti alcuni sequestri e solo successivamente si è potuto rilevare – anche ricorrendo, ad esempio al portale https://www.accredia.it/mascherine/  che si trattava di documentazione semplicemente contraffatta, cosicché le farmacie che vi sono incappate potranno evidentemente agire per la restituzione delle somme pagate ai fornitori e, s’intende, anche sporgere una denuncia per truffa.

La Federfarma, in una sua circolare del 7 maggio, ha peraltro fornito tutte le indicazioni [oltre ai link utili] per verificare se di una certa tipologia di mascherine la vendita al pubblico, e quindi l’approvvigionamento, sia cosa lecita o meno.

Per la cronaca, infine, anche il ns. Studio è caduto nella trappola, rifornendosi – in quantità peraltro non industriale – di mascherine chirurgiche con la marcatura CE non propriamente… CE, anche se noi per la verità dobbiamo soltanto farne uso all’interno dei nostri uffici.

(gustavo bacigalupo/federico mongiello)

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