Sono titolare di farmacia e convivo da anni con una collega. Posso costituire con lei un’impresa familiare valida anche ai fini fiscali, esattamente come quella che potrei formare con una moglie farmacista?
Era scontato che prima o poi si rendesse opportuno occuparsi della “Legge Cirinnà” [di cui vogliamo comunque allegare il testo integrale, perché gli interessati – che possono essere molto numerosi – la consultino attentamente], ma per il momento ci soffermiamo soltanto sulle implicazioni fiscali enunciate nel titolo.
Intanto, si tratta della L. 20/05/2016 n. 76 (in G.U. 21/05/2016 n. 118 e in vigore dal 5 giugno 2016) che consta [come purtroppo dobbiamo rilevare sempre più frequentemente] di un unico articolo – l’art. 1 – che a sua volta contiene 69 commi, il primo dei quali precisa in termini asciutti ma corretti ed esaustivi le finalità del provvedimento: “La presente legge istituisce l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione e reca la disciplina delle convivenze di fatto”.
La legge dunque introduce le – finora giuridicamente inesistenti – unioni civili (comma 2: “Due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono un’unione civile mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni”), cui sono dedicati i commi dal 2 al 35, e al tempo stesso “reca la disciplina” delle – sempre esistite – c.d. convivenze di fatto (comma 36: “Si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.”) regolate dai commi successivi.
Il presupposto indefettibile di questa seconda figura – che può instaurarsi anche tra persone dello stesso sesso, che sono invece i soli a poter partecipare alla formazione della prima – è quindi la stabile convivenza, un elemento evidentemente fattuale che deve però risultare da un “certificato di stato di famiglia” a propria volta derivante da una dichiarazione anagrafica resa ai sensi del Dpr. 223/89 dalle due parti, che non devono, come si è visto, essere “vincolate da rapporti di parentela, affinita’ o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.
Ma se il regime giuridico (e patrimoniale) dell’unione civile viene per molteplici aspetti assimilato a quello del matrimonio (con alcune importanti eccezioni e prima fra tutte quella molto dibattuta del divieto di adozione), la convivenza di fatto gode di garanzie – per la parte “più debole” – talora attenuate che, diversamente dall’altra figura, sembrerebbero prima facie riscontrarsi anche sotto il profilo evocato nel quesito.
Infatti, alle unioni civili (comma 13) “si applicano le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile”, tra le quali c’è anche l’art. 230bis che riguarda per l’appunto l’impresa familiare, cosicché non si può minimamente dubitare dell’applicabilità dell’intera – molto cospicua – relativa disciplina civilistica alle parti dell’unione civile e per ciò stesso neppure dell’applicabilità delle disposizioni fiscali di cui all’art. 5 del T.U.I.R., disponendo i suoi commi 4 e 5 quanto segue: “4. I redditi delle imprese familiari di cui all’art. 230 bis del c.c., limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attivita’ di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.
La presente disposizione si applica a condizione:
- a) che i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinita’ con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti;
- b) che la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualita’ e quantita’ del lavoro effettivamente prestato nell’impresa in modo continuativo e prevalente, nel periodo d’imposta;
- c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attivita’ di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.
- Si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado.”
Dunque l’art. 5 T.U.I.R. tratta testualmente dei “redditi delle imprese familiari di cui all’art. 230bis del Codice civile”, mentre per le convivenze di fatto il legislatore ha optato – forse non casualmente – per l’inserimento (comma 46) nel codice civile, a seguire dello stesso art. 230bis, del nuovo art. 230ter, che così recita:
“(Diritti del convivente). – Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.
La scelta di disciplinare con un’apposita disposizione le prestazioni lavorative di uno dei due conviventi “all’interno dell’impresa”, di cui è titolare [sempre in forma individuale, attenzione] l’altro convivente, è pertanto un indizio sicuro e molto robusto della volontà legislativa di differenziare civilisticamente le due fattispecie (anche) per la specifica vicenda dell’impresa familiare, quel che però potrebbe riverberarsi anche sul versante fiscale.
Del resto, l’art. 230ter ricalca solo in parte il… fratello maggiore, perché il convivente non imprenditore, come abbiamo appena rilevato, deve svolgere le sue prestazioni “all’interno dell’impresa” e perciò qui non giocano alcun ruolo quelle svolte in ambito domestico o strettamente familiare, che invece rilevano, sia pur soltanto in ambito civilistico e non fiscale, nell’art. 230bis.
Inoltre, al convivente non imprenditore l’art. 230ter riconosce soltanto alcuni dei diritti contemplati nell’art. 230bis, pure se quello di maggior rilievo – “partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato” – è attribuito al partecipe all’i.f. sia nell’una che nell’altra disposizione, ma, ad esempio, non spetta al convivente il “diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia”, né quello di partecipare alle “decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi” o “inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa” e né “il diritto di prelazione sull’azienda” in caso di divisione ereditaria o di cessione a terzi come prevede il penultimo comma dell’art. 230bis.
In sostanza, l’art. 230ter replica, e soltanto parzialmente,
il primo comma dell’altro, ma non tutto il resto.
Sta di fatto in ogni caso che, come abbiamo letto, l’art. 5, comma 4, del T.U.I.R. fa tuttora espresso riferimento – ma evidentemente non avrebbe potuto in questo momento essere altrimenti – alla sola impresa familiare di cui all’art. 230bis che da par suo precisa che come familiare qui si intende il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo, e per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo.
Il sistema normativo è questo e sulla base di tali rapide notazioni si potrebbe dunque escludere per le convivenze di fatto, differentemente dalle unioni civili, la possibilità di applicare l’art. 5 T.U.I.R., rischiando perciò di lasciare la fattispecie priva – per ragioni difficili da cogliere appieno – di una non equivoca disciplina fiscale.
Si giungerebbe invece alla conclusione opposta, con l’ampliamento anche alle convivenze di fatto dell’ambito applicativo dell’art. 5, tenendo in adeguato conto la corrispondenza, come abbiamo riferito, di alcuni dei capisaldi enunciati nell’art. 230bis rispetto a quelli che si traggono dall’art. 230ter, dando poi il giusto rilievo al richiamo espresso dell’impresa familiare operato dalla novella codicistica e considerando infine la sostanziale eadem ratio rinvenibile nelle due pur diverse disposizioni.
È vero che non è consentita tout court l’interpretazione analogica di norme tributarie, ma un quadro di disposizioni di riferimento bisogna pur individuarlo.
Non sarebbe d’altronde peregrino sospettare di incostituzionalità l’eventuale mancata estensione dell’art. 5 T.U.I.R. anche alle convivenze di fatto, ma crediamo che, prima di un intervento [c.d. additivo] della Consulta o di una pronuncia del giudice tributario, potrà essere lo stesso legislatore fiscale a superare l’impasse inserendo in un secondo momento proprio nell’art. 5 (e le occasioni certo non gli mancheranno) anche il riferimento all’art. 230ter.
Come peraltro non si può neppure astrattamente escludere che sia addirittura l’Amministrazione finanziaria a prendersi la briga di risolvere direttamente la questione a favore delle convivenze di fatto, ma non possiamo nasconderci che in tale evenienza gli uffici statali dovrebbero sobbarcarsi la fatica di… Sisifo di adattare il disposto dell’art. 5 a una fattispecie che non è pienamente sovrapponibile all’altra (il dettato dell’art. 230bis, come si è ricordato, è ampio e dettagliato rispetto a quello sin troppo asciutto dell’art. 230ter), e quindi a una fattispecie comunque diversa. Ed è difficile pensare che l’Amministrazione possa arrivare a tanto.
È vero, in definitiva, che c’è ancora qualcosa che va meditato con attenzione, ma ci pare che i conviventi di fatto possano serenamente fare affidamento su un esito positivo dell’indagine e dunque – tenendo presente che ai fini fiscali un’impresa familiare, affinché sia applicabile in un esercizio annuale, deve risultare (come prescrive l’art. 5) “da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo di imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti” – gli interessati sarà bene che procedano in tal senso entro il 31 dicembre p.v.
Però, si badi bene, anche per i conviventi di fatto, esattamente come per chiunque altro sia astretto a vincoli coniugali o comunque familiari con il titolare dell’impresa individuale, non può valere la “scommessa di Pascal” (più o meno: credi in Dio perché se Dio esiste sarai premiato, diversamente avrai vissuto senza rischiare alcunché per il tempo successivo alla tua morte), perché non è mai indifferente costituire o non costituire un’impresa familiare, dato che i suoi complessi e articolatissimi [per giunta non ancora tutti adeguatamente esplorati dalla giurisprudenza] effetti giuridici sul piano civilistico – un tema che abbiamo affrontato altre volte – discendono dalla formazione dell’i.f. (ma talvolta in realtà anche dal mero comportamento delle parti, prescindendo quindi da qualsiasi formalizzazione notarile o simile) anche laddove essa si riveli priva di operatività sotto il profilo fiscale, ad esempio per tardività della stipula del rogito o in questo caso specifico per ritenuta inapplicabilità alle convivenze di fatto dell’art. 5.
Ribadendo insomma un aspetto molto delicato già illustrato, addivenire alla formazione di un’impresa familiare non può dipendere da una scelta di pura natura fiscale, ma, ricorrendo ovviamente tutti i suoi presupposti civilistici (e/o fiscali), deve trovare la sua fonte primaria di ispirazione nell’affectio familiaris, perché alla sua cessazione le sorprese – per l’ampiezza quasi sconfinata dei diritti riconosciuti dall’art. 230bis, e in misura minore dall’art. 230ter, e anche per la loro complicata configurabilità nel concreto – possono andare già per conto loro ben al di là degli intendimenti delle parti se non altro per la mutevolezza e l’affievolibilità degli affetti umani, ancor peggio allora quando quell’affectio fosse inesistente o insufficiente sin dall’origine.
Considerazioni che naturalmente valgono allo stesso modo per i rapporti tra coniugi, tra conviventi di fatto o tra le parti di una unione civile, come in generale per tutti i rapporti familiari.
Ribadito però tutto questo, e per concludere, i conviventi di fatto – che formano una schiera fittissima in buona parte del mondo – ci pare possano fare affidamento anche loro sulla piena rilevanza fiscale dell’impresa familiare e, ove lo ritengano opportuno, procedere con ragionevole tranquillità alla tempestiva sua costituzione.
(gustavo bacigalupo)
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