Sulla famosa “lista Falciani” – QUESITO
Mi trovo in una situazione sotto qualche aspetto delicato e vorrei sapere
qualcosa di più sulla “lista Falciani” di cui si è parlato parecchio per
alcuni mesi ma di recente non più.
Qualche tempo fa Hervè Falciani, dipendente di una banca svizzera (la HSBC
Private Bank di Ginevra per la precisione) sottrasse dal sistema
informatico i nomi di alcuni cittadini (anche) italiani che risultavano
detentori di capitali e disponibilità finanziarie (che in seguito si
rivelarono) mai dichiarati al Fisco.
Successivamente la “lista” è stata ceduta al governo francese e da
quest’ultimo – in base alle vigenti convenzioni internazionali in materia
di cooperazione e di scambio di dati tra gli Stati ai fini di lotta
all’evasione – al Fisco italiano, che ha avviato attività di accertamento
nei confronti di tali soggetti.
Nel contenzioso che ne è seguito la principale contestazione sollevata dai
“malcapitati” ha riguardato l’inutilizzabilità della documentazione alla
base della verifica, proveniente da un atto illecito e cioè dalla
sottrazione fraudolenta delle informazioni riguardanti i nominativi e i
rapporti dal data-base della banca.
Ma una volta giunta in Cassazione la vicenda (v. da ultimo la sentenza n.
16951/2015) le speranze riposte in questo argomento difensivo sono ben
presto svanite: gli Ermellini, infatti, hanno ricordato che, al contrario
di quel che avviene nel processo penale, nel processo tributario non vige
un principio di inutilizzabilità della prova acquisita illegalmente e che
in ogni caso l’acquisizione illegale delle informazioni si collocherebbe
“a monte” della trasmissione dei dati al Fisco italiano avvenuta, come già
ricordato, in forza delle vigenti convenzioni internazionali, e quindi
pienamente legittima.
Il giudice tributario – insiste la Corte – è invero chiamato a valutare
ogni prova che sia idonea a formare il suo libero convincimento senza
alcuna restrizione in ordine alla fonte della stessa, eccezion fatta per i
divieti espressamente previsti dalla legge; inoltre – e questo è stato un
altro cavallo di battaglia, cui ben presto è ricorsa la difesa, azzoppato
dalla Corte – il diritto alla riservatezza non può costituire un bene di
grado superiore rispetto ai principi di capacità contributiva e di giusta
imposizione, per la salvaguardia dei quali può quindi essere legittimamente
sacrificato.
Tutta la storia, come è intuitivo, ha riacceso la polemica sulla sicurezza
dei data-base gestiti dagli istituti finanziari e, più in generale, sulla
necessità di una più attenta regolamentazione dei mezzi di prova digitali.
(franco lucidi)